Ci sono dei ambiti che mi daranno la possibilità di scrivere
tanti e tanti post. Uno di questi è la vita da supermercato. Per abitudine,
frequento un centro commerciale, sempre quello, un po’ per pigrizia, un po’
perché mi piace vedere la confusione, un po’ perché fa un tanto “mall” degli
Stati Uniti (beh, non proprio come quello in foto, per la verità...), dei quali ho tanta nostalgia.
L’ultima volta che ho fatto la spesa, il supermercato era
mezzo deserto: lunedì, ora di pranzo, fine di Agosto. Corridoi liberi, casse
sgombre, niente bambini. Soprattutto niente bambini: un paradiso. Cuffiette,
canzone preferita, carrello con ruota regolarmente isterica, borse
riutilizzabili (non dimenticatele mai!): assetto standard, pronto per la spesa.
Sul momento non ci ho fatto caso, ma a poco a poco ho
cominciato a vedere scaffali vuoti, e corridoi sì senza malefici bambini, ma anche
senza addetti al riassortimento. Non era solo mezzo, ma proprio completamente deserto
quel supermercato! A questo punto vado in cerca di indizi, per capire cosa
fosse successo, e vedo per terra uno di quei giornalini colorati, di quelli che
tra carta e inchiostri corrispondono a svariate tonnellate di CO2
immesse in atmosfera, di quelli che con fastidio e sdegno gettiamo nella
spazzatura se ce li ritroviamo nella cassetta della posta. Offerte, dal 22 al
30 Agosto, leggo.
Faccio mente locale e mi accorgo che era il 24 Agosto. Due
giorni dopo l’apertura delle gabbie, due giorni dopo l’assalto delle
cavallette, due giorni dopo l’inizio della guerra. In più, c’erano ulteriori
sconti con appositi bollini (segreti), fino al giorno prima. Ora tutto
quadrava: silenzio, casse vuote, cartoni e plastica abbandonati qua e là. Il
campo dopo la battaglia.
Comincio a pensare di cambiare supermercato quando il mio
orgoglio prende il sopravvento e mi dico: anche io combatto, anche io vado all’assalto,
non importa cosa è rimasto, conquisterò il mio cibo! E così riesco a guadagnare
il latte, le uova (erano rimaste le ultime 12 di quelle da galline allevate all’aperto,
compro solo quelle), il parmigiano (l’ultima confezione tra quelle in offerta).
Mancavano i biscotti. Erano dall’altro lato, dovevo tornare tutto indietro
(ricalcolo percorso…).
Arrivo nel corridoio dei dolciumi e li vedo. I miei. L’unica
cosa che tollero nei primi trenta minuti dopo il risveglio. E quando dico
unica, sto parlando anche la mia faccia allo specchio.
Li vedo da lontano, ma mi accorgo pure che nuotano nel vuoto
dello scaffale: era l’ultima scatola. Mi avvio sconsolato verso di loro quando
la avvisto. Trenta centimetri scarsi più alta del carrello, vestitino bianco,
culo basso, tette (chiamiamole così per essere buoni) ottava coppa effe
poggiate sui fianchi, braccia in modalità bargigli, occhiali spessi tre dita, baffetti
non decolorati, scarpe aperte di quelle che lasciano intravedere solo alluce e
secondo dito con unghia color rosso Marilyn. Ma soprattutto, sguardo fintamente
trasognato. È stato un attimo, solo un attimo, ma ho visto una linea unire i
suoi occhi da pesce con la scatola dei biscotti. L’ultima. La mia.
Ci guardiamo, poi guardiamo i rispettivi carrelli. Io ho più
roba da spingere nel mio ma lei è più piccola e lenta. Mi muovo con apparente
indifferenza mentre accelero. Guadagno terreno, quattro metri… tre… Ormai lo
scontro è aperto, nessuna mossa nascosta, nessuna corretta vittoria, alla
faccia degli amanti dell’Aikido.
Due metri, uno… sono in vantaggio, la balenona bianca non
riesce a spingere il carrello, anche la sua ruota è isterica e si inceppa. Gli
ultimi cinquanta centimetri li guadagno con le braccia: sono miei! Faccio finta
di guardare ingredienti e informazioni nutrizionali che conosco ormai a memoria
(a proposito, fatelo sempre) e lascio cadere il pacco nel mio carrello. La
signora arriva, alla fine. Cerca altri biscotti. Ma non ce ne sono. Mentre
faccio marcia indietro mi dice, con fortissimo accento:
- Erano “l’ùrtimi”?
- Sì, mangia anche lei questi? – rispondo col sorriso del
vincitore
- No, è per mio marito, non ne mangia “acci”, poverino sta
male, vomita tutto ma questi no
Ebbene, anche io ho un cuore. Sì, persino io. Avevo lottato tutto
il pomeriggio, avevo scavato in mezzo a carcasse di scatoloni e confezioni per
cercare gli ultimi rimasugli di cibo, ma non potevo rimanere insensibile.
Riallungo il braccio verso il carrello, prendo il pacco e faccio per porgerlo
alla signora:
- Lo prenda lei, non si “preoccupa”, ne mangerò “acci”
- Annì – dice una voce alle mie spalle – Annì, ‘cca sì? Tri
uri ca ti cerco. Chisti vogghiu…
Era un signore allampanato, capelli bianchi, gambe storte,
naso grosso e paonazzo, pantaloni celeste chiaro due misure più grandi,
canottiera in trasparenza sotto la camicia bianca spessore ostia. E
soprattutto, aveva in mano un altro pacco di biscotti.
- Ma quelli “dice” che non ti piacciono… -
- Ma a me questi piacciono, non quelli – dice indicando i
miei – “chiddi t’accatti pi ‘ttia”
E mi guarda ridendo. Ritraggo la mano risentito, come una
molla. Riposo i biscotti nel mio carrello. Lancio alla signora un sorriso alla carta vetrata.
- Ma che fa, dice le bugie?
- Ma è lui… Cambia idea… - dice abbassando quegli occhi da
sarago (avevo finalmente capito a quale pesce associarli)
Li saluto. Lui ride. La sfotte. Lo sguardo di lei oscilla tra quello di
amore verso i (miei) biscotti a quello di odio verso di me.
Mentre mi dirigo alla cassa riguardo meglio il pacco. È giallo
e rosso, stessa scritta, stessa forma, stessa dimensione. Ma non è lui! Torno
nel corridoio e vedo che i miei biscotti erano tutti lì, dieci, forse venti scatole.
Restituisco l’intruso, prendo il legittimo, stando attento, come i Re Magi, a
non ripercorrere la stessa strada per non rincontrare la signora inferocita. E
che dovevo fare?
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