domenica 6 settembre 2015

Servito. E riverito? Parte 3

Riassunto delle puntate precedenti. Pizzeria senza prenotazione, tanta fame, gestori e personale poco disponibili. Finalmente si mangia ed è ora di pagare e fuggire da questo posto.
Mentre i piatti semivuoti e cumuli di fazzoletti di carta coprono le trentadue tovaglie (fanno finezza) che a loro volta coprono il tavolo, alzo la mano. Questo gesto attira subito l’attenzione tipo coyote che vede una preda: vogliono ancora spendere soldi, pensa il cameriere-soldato. Mi assicuro l’agganciamento visivo e poi faccio il gesto della penna (con la mano sinistra): chiedo il conto. 



Un sorriso deluso gli si dipinge sul volto che però non si perde d’animo. Si avvicina, secondo quanto previsto durante il briefing pomeridiano con il maître, e pronuncia un’altra frase standard (e odiosa):

- limoncello, dessert, limoncello, caffè, limoncello, grappa, frutta limoncello…

Ok. Dagli anni ’80 in poi è diventato di moda questo limoncello. Descriviamolo. Quello originale nasce sulla costiera amalfitana ed è un prodotto tipico di quella regione. Poi purtroppo la gente sbagliata viaggia nei posti giusti e importa ricette errate che copia malamente per poi rivendersele. Come la roba dei cinesi, praticamente. E così nasce la “tradizione” siciliana del limoncello a fine pasto. Limoncello che si manifesta come un liquido viscoso, appiccicoso, così zuccherato (lo zucchero costa poco) che è necessario portare la temperatura a -20 °C per poterlo bere senza sputarlo.



 La quantità di alcol presente è trascurabile (costa caro) e, inoltre, a quella temperatura l’aroma della buccia del limone, ovvero il miscuglio di oli essenziali lì presenti, è così flebile che praticamente ti sembra di inghiottire agrumi tenuti all’obitorio.
Ovviamente si tratta della ricetta segretissima della moglie del proprietario del locale. Gliel’ha data una sua amica che ha una parente che è sposata con uno che è nipote di una signora la cui nonna viveva a Sorrento (bellissima, nella foto). Quindi ha automaticamente la certificazione di autenticità. Ma fa schifo ugualmente…



E però il cameriere pervicace te lo propone. E ripropone. E ripropone.

- Un caffè – dice uno di noi

E certo. Perché non potevamo andare in un bar, 90 centesimi, 90 secondi e poi passeggiata. No. Meglio un euro e cinquanta e quindici minuti. Ma va beh...

- Ok. Allora un caffè e il conto – Aggiungo io

Parte (si scriverebbe nella sceneggiatura delle commedie ottocentesche).
Parte e non torna. I quindici minuti passano davvero. Ormai siamo quasi a chiusura, tra poco mettono le sedie sui tavoli per passare lo straccio. Le undici sono passate da un pezzo. Finché eccolo che arriva.

- Scusate per l’attesa

Cazzo, un caffè devi fare! E il locale è vuoto! E il conto…? Non c’è.
Il trucco della mano alzata non funziona più. Ci vogliono le armi pesanti. Mi alzo in piedi. No, non si sentono minacciati fisicamente da me, ma secondo il manuale temono istintivamente che voglia andare via senza pagare. Riottengo immediatamente l’attenzione.

- Prego – dice affettato
- Si è dimenticato il conto – dico piccato
- Arriva subito – replica secco

Un piacere di dialogo.
Dopo un paio di minuti arriva uno scrigno di legno. Chiuso. Pesantissimo. Sembra uno di quei contenitori per serpenti che si vedono a Marrakech, a Jemaâ El Fna. Solite battute scontatissime, previsioni (ma anche se indovini…?) e alla fine delusione: appare una specie di pezzetto di carta, ben scritto, ben stampato. Pre-conto. Pre… che? Dopo avere subito per anni sindromi pre-mestruali e avere da poco scoperto che esiste il pre-compleanno (sarebbe il giorno prima del compleanno e i tasci lo festeggiano pure insieme al post-compleanno, così da formare una specie di Triduo), ora bisogna fronteggiare anche i pre-conti. 



Rappresenta la comanda (quella sbagliata, ovviamente) così come proveniente dal famoso mini tablet. Solo che ora ci sono anche i prezzi. Ne discuto un po’ coi miei commensali. Si fanno i calcoli. Lasciamo la mancia anche se ci sono due euro di coperto: ma sì... Però io non sono tranquillo e se ne accorgono tutti. Glielo devo chiedere… Ci devo andare
Mi dirigo alla cassa col pezzettino di carta. Non trovo nessuno.

Prego – mi dice infastidito sempre lo stesso cameriere, ormai abbiamo pagato, siamo al pari dei sacchi di rifiuti che stanno portando fuori
- La ricevuta – rispondo duro

Volta lo sguardo per lo sdegno e si allontana. Sento che in dialetto chiama un tale Peppe (c’è sempre un Peppe nelle pizzerie) perché vada alla cassa: “viri chi bbuoli chiddu”. “Chiddu” sarei io. Decido che non potevo sentire perché ero troppo lontano. Se avessi deciso di sentire avrei dovuto ingaggiare un duello.
Arriva infine “Peppe”. Non saluta. Gli porgo il fogliettino. Lo traduce in ricevuta. A mano.  Fa per alzarsi senza salutare ma io con la mia voce tenorile intono:
- Grazie, una buona serata

Rispondono tutti. E mi memorizzano. La prossima volta è sputo nella pizza assicurato. Ma col piffero che ci ritorno, una prossima volta!

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