Riassunto delle puntate precedenti. Pizzeria senza
prenotazione, tanta fame, gestori e personale poco disponibili. Finalmente si
mangia ed è ora di pagare e fuggire da questo posto.
Mentre i piatti semivuoti e cumuli di fazzoletti di carta
coprono le trentadue tovaglie (fanno finezza) che a loro volta coprono il
tavolo, alzo la mano. Questo gesto attira subito l’attenzione tipo coyote che
vede una preda: vogliono ancora spendere soldi, pensa il cameriere-soldato. Mi
assicuro l’agganciamento visivo e poi faccio il gesto della penna (con la mano
sinistra): chiedo il conto.
Un sorriso deluso gli si dipinge sul volto che però
non si perde d’animo. Si avvicina, secondo quanto previsto durante il briefing
pomeridiano con il maître,
e pronuncia un’altra frase standard (e odiosa):
- limoncello, dessert, limoncello, caffè, limoncello,
grappa, frutta limoncello…
Ok. Dagli anni ’80 in poi è diventato di moda questo
limoncello. Descriviamolo. Quello originale nasce sulla costiera amalfitana ed
è un prodotto tipico di quella regione. Poi purtroppo la gente sbagliata
viaggia nei posti giusti e importa ricette errate che copia malamente per poi
rivendersele. Come la roba dei cinesi, praticamente. E così nasce la “tradizione”
siciliana del limoncello a fine pasto. Limoncello che si manifesta come un liquido
viscoso, appiccicoso, così zuccherato (lo zucchero costa poco) che è necessario
portare la temperatura a -20 °C per poterlo bere senza sputarlo.
La quantità di
alcol presente è trascurabile (costa caro) e, inoltre, a quella temperatura l’aroma
della buccia del limone, ovvero il miscuglio di oli essenziali lì presenti, è
così flebile che praticamente ti sembra di inghiottire agrumi tenuti all’obitorio.
Ovviamente si tratta della ricetta segretissima della moglie
del proprietario del locale. Gliel’ha data una sua amica che ha una parente che
è sposata con uno che è nipote di una signora la cui nonna viveva a Sorrento (bellissima, nella foto). Quindi
ha automaticamente la certificazione di autenticità. Ma fa schifo ugualmente…
E però il cameriere pervicace te lo propone. E ripropone. E
ripropone.
- Un caffè – dice uno di noi
E certo. Perché non potevamo andare in un bar, 90 centesimi,
90 secondi e poi passeggiata. No. Meglio un euro e cinquanta e quindici minuti. Ma va beh...
- Ok. Allora un caffè e il conto – Aggiungo io
Parte (si scriverebbe nella sceneggiatura delle commedie
ottocentesche).
Parte e non torna. I quindici minuti passano davvero. Ormai
siamo quasi a chiusura, tra poco mettono le sedie sui tavoli per passare lo
straccio. Le undici sono passate da un pezzo. Finché eccolo che arriva.
- Scusate per l’attesa
Cazzo, un caffè devi fare! E il locale è vuoto! E il conto…?
Non c’è.
Il trucco della mano alzata non funziona più. Ci vogliono le
armi pesanti. Mi alzo in piedi. No, non si sentono minacciati fisicamente da
me, ma secondo il manuale temono istintivamente che voglia andare via senza pagare.
Riottengo immediatamente l’attenzione.
- Prego – dice affettato
- Si è dimenticato il conto – dico piccato
- Arriva subito – replica secco
Un piacere di dialogo.
Dopo un paio di minuti arriva uno scrigno di legno. Chiuso.
Pesantissimo. Sembra uno di quei contenitori per serpenti che si vedono a
Marrakech, a Jemaâ El Fna. Solite battute scontatissime, previsioni (ma anche
se indovini…?) e alla fine delusione: appare una specie di pezzetto di carta,
ben scritto, ben stampato. Pre-conto. Pre… che? Dopo avere subito per anni
sindromi pre-mestruali e avere da poco scoperto che esiste il pre-compleanno
(sarebbe il giorno prima del compleanno e i tasci lo festeggiano pure insieme
al post-compleanno, così da formare una specie di Triduo), ora bisogna
fronteggiare anche i pre-conti.
Rappresenta la comanda (quella sbagliata,
ovviamente) così come proveniente dal famoso mini tablet. Solo che ora ci sono
anche i prezzi. Ne discuto un po’ coi miei commensali. Si fanno i calcoli.
Lasciamo la mancia anche se ci sono due euro di coperto: ma sì... Però io non
sono tranquillo e se ne accorgono tutti. Glielo devo chiedere… Ci devo andare
Mi dirigo alla cassa col pezzettino di carta. Non trovo
nessuno.
Prego – mi dice infastidito sempre lo stesso cameriere,
ormai abbiamo pagato, siamo al pari dei sacchi di rifiuti che stanno portando
fuori
- La ricevuta – rispondo duro
Volta lo sguardo per lo sdegno e si allontana. Sento che in
dialetto chiama un tale Peppe (c’è sempre un Peppe nelle pizzerie) perché vada
alla cassa: “viri chi bbuoli chiddu”. “Chiddu” sarei io. Decido che non potevo
sentire perché ero troppo lontano. Se avessi deciso di sentire avrei dovuto
ingaggiare un duello.
Arriva infine “Peppe”. Non saluta. Gli porgo il fogliettino.
Lo traduce in ricevuta. A mano. Fa per alzarsi senza salutare ma io con la mia voce
tenorile intono:
- Grazie, una buona serata
Rispondono tutti. E mi memorizzano. La prossima volta è
sputo nella pizza assicurato. Ma col piffero che ci ritorno, una prossima
volta!
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